Il Museo dei pupi a Napoli tra tradizione e realtà storica

Un’archeologia del racconto

In occasione della prossima apertura del primo Museo del Teatro di Figura Campano e Meridionale, che sarà ospitato nella città di Napoli in pieno centro cittadino, si intende rivisitare il percorso che da una ricerca pluriennale sul teatro di figura meridionale condotta dal Professore Alberto Baldi della Federico II e dall’équipe di ricerca, un gruppo di giovani antropologi oggi costituitisi in Associazione Antrocom Onlus Campania, ha portato al recupero e alla rivalutazione di un ingente patrimonio orale e materiale, restituendo alla città Partenopea una tradizione sul teatro di animazione popolare risalente al Seicento e che ha sempre avuto in Napoli e nella sua provincia il principale polo di produzione e di diffusione.
L’importanza di tale iniziativa, guidata da un interesse antropologico e sociale verso un patrimonio popolare di estrema rilevanza, sta nel fatto che Napoli non solo non ha un museo del proprio teatro ma nemmeno della canzone napoletana; il che adduce al fatto che esiste un’assenza e un abbandono per il recupero della coscienza storica e dell’immaginario del popolo partenopeo, con tutte le conseguenze che sono immaginabili e purtroppo oggi anche osservabili.
Allocato in un’ala del Complesso settecentesco di Santa Maria La Nova, il Museo consacra ampio spazio all’Opera dei Pupi e alla storia del suo Teatro, sin dalla metà del Settecento quando il Sebeto e la Stella Cerere (teatri napoletani allocati alla Marina) vedevano l’approssimarsi di attori del calibro di Antonio Petito e Edoardo Scarpetta.
Ma il patrimonio al quale fa maggiormente riferimento il nostro Museo appartiene in primis alla famiglia Perna, di cui il capostipite fu Ciro Perna senior detto ‘o Scutiero e nato a Portici nel 1879. Capo compagnia perfezionista e scrupoloso quest’ultimo aprì un Teatro dell’Opera dei pupi nei pressi della zona Mercato intorno agli anni ’30 poiché egli riteneva quella zona la Mecca dei pupi, scontrandosi spesso con un regime quello fascista che leggeva nelle storie della Napoli Antica un’ideologia reazionaria e una visione quasi gratificatoria delle imprese della guapperia. Da un polveroso deposito di Frattamaggiore in provincia di Napoli, nel 2004, Antimo Perna, l’ultimo discendente dei pupari napoletani, riporta alla luce un intero secolo di storia.
Una collezione di grandissimo valore storico e demoetnoantropologico: circa 120 pupi, 100 teste, centinaia di vestiti, due teatri, scenografie, animali, 300 cartelloni dipinti a mano, 70.000 pagine manoscritte del teatro napoletano dei pupi che costituiscono il fondo acquisito dalla Provincia di Napoli.

L’équipe, decisa a ricostruire il percorso seguito dai manufatti, rileva insieme agli oggetti il racconto, i ricordi e, rintracciando una identità storica e culturale, si incammina verso i segni di una storia popolare. Il materiale raccolto sul campo, le informazioni raccolte dalle numerosissime interviste ai pupari e i dati acquisiti, il tutto opportunamente schedato e catalogato, risulta immediatamente cospicuo e utile per un recupero dell’aspetto identitario.
Un’archeologia del racconto: si scava e alla luce riemergono abilità, tradizioni, mestieri, riti, profili di personaggi, stili di vita quotidiana, luoghi rappresentativi; ma sopra ogni cosa quello che affiora è la realtà popolare napoletana. Le rappresentazioni teatrali, i personaggi in scena, i costumi indossati, i fondali riprodotti, rimandano immediatamente ad una ricomposizione della storia popolare appartenuta alla città di Napoli. Il richiamo antropologico dei manufatti si riscontra in maniera evidente nella lettura del corredo di scena di pupi, marionette, burattini e guarattelle.
I pupi della Famiglia Perna, i copioni teatrali di Ciro Verbale, Giuseppe Abruzzese, Ciro Perna, dei Corelli e dei Buonandi, la manifattura dei costumi, i dipinti pubblicitari disegnati dai Perna, ricostruiscono una storia che era rimasta soffocata e rischiava di essere dimenticata in assenza del contributo stanziato dalla Provincia di Napoli, che ha consentito l’acquisizione e il restauro dei beni recuperati.
Mossi dalla convinzione che all’oggetto della raccolta etnografica, vi è più se immateriale, deve essere garantito ed associato un apparato didascalico ed informativo, anche dopo il suo rilevamento sul terreno e quindi dopo la rimozione dal suo contesto di appartenenza, la campagna di ricerca prima e di catalogazione poi, ha prestato particolare cura alla fase di raccolta dei dati, recuperandone significati sia materiali che immateriali per donare all’oggetto, una volta allocato nelle sale del Museo, una funzione espressiva nonché comunicativa servendosi anche di supporti multimediali, documentari antropologici, ricostruzioni tridimensionali.
Il Museo non si presenta come un insieme di teche armadi e supporti; le imprese di Carlo Magno e dei paladini di Francia, ma soprattutto i racconti popolari del teatro di guapparia dove si avvicendano personaggi più disparati: avvocati, preti, marinai, pacchiane e guappi, avevano necessità di liberarsi ad un pubblico eterogeneo e di recuperare una suggestiva fetta dell’esperienza popolare attraverso un coinvolgimento visivo il più veritiero e accattivante possibile.
Un luogo che diventa museo-laboratorio, dove poter rivivere i fasti del passato, ma anche ritrovare, napoletani e italiani, l’orgoglio di appartenere ad un processo storico e culturale di straordinario e umanitario spessore. Sul boccascena dell’Opera dei pupi si è tentato di rappresentare e far rivivere le storie, i personaggi, le vicende e la dinamicità dei vicoli napoletani, per riconsegnare alla città un museo della tradizione antropologica, etnica e sociale.
Entrare nel Museo (che a breve verrà aperto al pubblico), dà la sensazione di camminare per i decumani dove un tempo gli spettacoli di animazione risultavano floridissimi, con decine di compagnie che si contendevano i luoghi nevralgici della città per collocarvi i propri teatrini, dai quali sciorinare racconti, riti, storie popolari e opere letterarie o teatrali.
Il disegno scenografico nel quale si muoveranno i reperti salvati, restituisce in pieno la vivacità e l’originalità di quest’arte del teatro di figura, a Napoli così poco indagata.
Le ambientazioni e gli allestimenti scenografici, evocano episodi salienti desunti dai repertori più significativi del teatro di figura meridionale, e soprattutto, seguono distinte strategie espositive per differenti target di visitatori.
Avremmo così la possibilità di visitare l’ambiente divertente e accattivante di uno scenario circense, per poi ripiombare nella tragicità dei retroscena della malavita napoletana e finire in un avvolgente spazio orientaleggiante dove turchi e cristiani affascinano le scene.
Entrando nelle scene teatrali del Museo, immediatamente i colori ci sovrastano. Le evoluzioni degli acrobati fatte al trapezio, le esibizioni dei cantanti e delle ballerine di tarantelle ci restituiscono l’ambiente giocoso e allegro del circo, dove la logica della realtà si spezza per lasciare spazio alla fantasia catapultando il visitatore fuori dalla realtà quotidiana e dentro le dinamiche storiche partenopee, quando il fuoriprogramma funzionava da esorcizzatore delle paure, del dolore e del disagio del tempo.
È il teatro di avanspettacolo, un genere di spettacolo teatrale comico sviluppatosi in Italia nel 1930.
L’avanspettacolo cominciò a svilupparsi quando durante il regime fascista si andava facendo strada l’idea di esorcizzare le ansie e le frustrazioni della vita quotidiana, filtrandole attraverso il ricorso ad una carica di comicità.
Gli occhi degli spettatori posizionati sulla cavea, assistevano così ai “fuoriprogramma”di “Addio mia bella Napoli”, “’O zampognaro ‘nnammurat”, spettacoli con i fantocci a sei fili che interpretavano parti comiche, sceneggiate, tarantelle, sulle note di cantautori dell’epoca. La coreografica rappresentazione delle scene di avanspettacolo sono così state riprodotte nella sala dedicata alle storie circensi del Museo in questione. Seduti tra gli spalti, un tempo occupati dal popolo napoletano, oggi ritroveremo i pupi, che assistono alle scene acrobatiche che si svolgono in pista e rivivono questo teatro terapeutico come nel passato, lontani dalle difficoltà dell’esterno come un luogo e un momento di rifugio e dove anche le donne erano ammesse a godersi lo spettacolo, a differenza dell’Opera dei pupi più cruenta, ma anche veritiera dedicata esclusivamente ad un pubblico maschile.

Lasciando attori e spettatori al compito di divertire il visitatore, si viene catturati da una luce fioca e da suoni che intimoriscono gli animi prima divertiti dalle esibizioni proto-burlesche.
La scena si presenta più mesta, i colori monotematici. Le pareti dipinte di rosso richiamano il colore del fuoco, dell'ira, della rivolta e del sangue. Grossi uomini muscolosi costruiti in gesso, rappresentano gli opranti delle Compagnie oramai sparite e reggono nelle mani dall’alto, come un tempo nei teatri dal ponte di manovra, aste di ferro e fili alle cui estremità sono agganciati, questa volta, i pupi.
I personaggi qui collocati, dai tratti duri, dallo sguardo fiero, torvo, sospettoso, attraverso la mano stretta in un pugno o un indice puntato verso l’avversario, esprimono l’azione scenica e l’emozione visiva. Si tratta di usurai, basisti, strozzini … e appesi ad un filo, compaiono i camorristi.
Questo è il patrimonio dei Perna più cospicuo e anche più rilevante per l’interpretazione culturale e la lettura sociale di un’epoca che viveva un senso di identificazione e esplorava l’autenticità del luogo e degli abitanti giungendo a costruirne quell’appartenenza sociale che risultava per di più riferimento e sicurezza locale.
Come suggeriva il Prof. Simonicca nella sua introduzione, si sta tentando di dare una chiave di lettura utile per il presente, che revisiona il passato prendendo avvio dalle emergenze attuali.
Napoli vive un rilassamento culturale sembrerebbe provocato, dove la dimenticanza e il distacco dalla memoria storica, questa sorta di nichilismo sociale, sa procurare danni relazionali critici.
Occorre saper reinterpretare una storia e degli aspetti che hanno caratterizzato questa città, reinterpretare perché se questo popolo seguiva con estrema passione l’Opera ‘e pupi sentendosi parte integrante delle storie narrate, nei beni salvati e nelle storie seguite si nasconde un coinvolgimento emotivo e un riferimento culturale di tale importanza sociale. Questo patrimonio sul piano ideologico è ricco di meccanismi culturali, lo si legge già nell’idea che questo tipo di teatro ha funzionato come un “modello” per lo spettatore. Ogni pupo attraverso i suoi opranti viveva un’estrema tipizzazione che rendeva le sue caratteristiche comportamentali uniche, mettendolo immediatamente in conflitto con l’uomo reale che invece è sede di comportamenti contraddittori
che provocano conflitti fra identità e identificazione.
Il pupo che rappresentava comunque sempre un personaggio reale soprattutto nelle storie della malavita napoletana, si presentava invece come estrema tipizzazione nella quale potersi identificare e proiettare. Nel suo agire sulla scena del teatrino, si scontrava con una varietà di altre presenze che costituivano un repertorio di esemplarità possibili con le quali potersi identificare e poter individuare di conseguenza una linea di risoluzione ai problemi esistenziali, senza operare un concreto intervento sulla realtà ma acquisendo sicurezza psicologica e certezze culturali fondamentali. Ritroveremo così nel Museo pupi che indossano giacche corte aderenti, dai colori accesi, i famosi gamurrini, che caratterizzano il tipico profilo del guappo. I pantaloni larghi, la coppola di panno che incute rispetto, i mustacchi o baffi tagliati regolarmente sottili quale simbolo di forza e di virilità, indipendenza e saggezza, ridisegnano il profilo del guappo; l’ommo ’e core, lo spirito fiero che non tollerava forme di obbedienza e preferiva imprese solitarie nelle quali far sfoggio della propria bravura.
Coloro che un tempo volevano atteggiarsi a ‘signorotti’ indossano un abito un po’ più lungo detto marsina, che valse loro la denominazione di guappi di sciammeria, la cui estrazione piccolo-borghese li poneva in contrasto con i veri camorristi. E tra quest’ultimi si potrà avere l’onore di incontrare il celebre capo della camorra, il capintesta Tore ’e Crescienzo o il capo del carcere della Vicaria, Michele Capuano.
Riscontreremo così per questo nuovo profilo, personaggi dall’aspetto elegante, con completi in velluto o pelliccia e copricapo imponenti.
In questa sala adibita alla rappresentazione delle storie della malavita napoletana abbiamo la possibilità di conoscere e riconoscere quindi volti noti di guappi che hanno realmente attraversato con i loro misfatti le strade partenopee. Un metro e trenta per 40 chilogrammi di peso, questi personaggi occupano un posto tra la leggenda e la storia della camorra.
Il repertorio del Ciclo della Napoli Antica, con i copioni di autori conosciuti nel mondo del teatro, racconta le vicende di Marco Spada, di Tore ’e Crescienzo, di Crapariello e Fraddiavolo, e ne connota fortemente l'identità culturale del luogo delle rappresentazioni, la città di Napoli, teatro effettivo delle vicende malavitose mandate in scena. Gli opranti disegnavano i profili e le vicende di famosi camorristi realmente esistiti da Tore 'e Crescienzo ad Antonio 'a Port 'e Massa, variamente coinvolgendo in esse anche le classi governative con le storie di Ferdinando IV di Borbone e di Giuseppe Garibaldi.
La lettura dei copioni teatrali di fine Ottocento e inizio Novecento, ha permesso di ricostruire i racconti della malavita organizzata, di cui la struttura drammaturgica è stata restituita, se non in toto almeno nella sua parte figurativa, all’interno della sala in questione.
L’interpretazione critica seguita alla lettura dei manoscritti, smuove una considerazione sulle pulsioni e le esigenze storiche legate al popolo napoletano e alla rappresentazione della realtà attraverso la forma teatrale.
Nel clima di degrado nel quale riversava il popolo napoletano alla metà dell’Ottocento sembra farsi strada l’idea che il teatro debba svolgere anche una importante funzione di orientamento delle masse e di formazione di una coscienza sociale in senso liberale.
I temi legati al mondo della camorra vengono rappresentati dai pupari, fino alla metà del Novecento, in un’atmosfera tragica, con tonalità forti, ma filtrati attraverso una certa comicità, pur sempre controllata, e un tono farsesco senza spirito polemico e sete di giustizia. La cronaca nera forniva, con dovizia di particolari, ampio materiale che veniva portato sulla scena con stile quasi documentaristico; ma i pupari per ottenere il tripudio generale degli spettatori e dietro un disegno moralistico di stampo sociale, acclamavano nel finale il trionfo della virtù e la mala sorte della cattiveria che finiva sempre per essere punita.
Lo stesso Ciro Verbale, grande autore di copioni e lui stesso per anni puparo, dichiara in un’intervista: “Il fatto che i copioni scritti da mio padre e da me sulle storie della camorra sono fedeli alla storia dipende dall’amicizia che legava mio padre, ad alcuni rappresentanti di primo piano dell’onorata società”. Le storie rappresentate difatti, rimandano ad eventi precisi suggeriti dai racconti di personaggi malavitosi dell'epoca realmente esistiti.
In tal senso le storie dei repertori e i manufatti che le interpretano, rappresentano un preziosissimo documento di produzione di cultura popolare dell’epoca, in quanto tracciano con precisione la visione popolare di eventi storici e di vita quotidiana.
In Nel paese dei balocchi? Vincenzo Esposito dell’Università degli Studi di Salerno, ricostruisce abilmente l’immaginario popolare legato alla figura del camorrista e i frame culturali che formulano un piano ideologico della cultura popolare di quel tempo. In un’intervista che conduce a Ciro Perna, l’ultimo puparo napoletano, quest’ultimo racconta che “la ‘camorra’ delle sue storie di pupi era ben diversa da quella feroce e mortale macchina criminale che è attualmente. Compito di un capintrite, il capo zona di un quartiere, era quello di risolvere le situazioni limite, riparare ai torti. […] Nell’immaginario popolare il paladino e il camorrista sono due ‘chiamati’ ad una missione superiore consistente nel rendere giustizia a chi ha subito un torto”.
Difatti la ricerca ha portato alla raccolta e all’interpretazione di manufatti e storie legate anche al Ciclo epico-cavalleresco riservando una sala in stile orientale a questo repertorio.
Il Ciclo epico-cavalleresco assolveva nello spazio simbolico del teatro un compito ben preciso, quello di diffondere l’informazione. Tale tipo di rappresentazione, attraverso l’Opera dei pupi riusciva a rendere fruibili alla plebe i repertori dei principali teatri cittadini, accessibili prevalentemente al ceto medio intellettuale. Il trasferimento di contenuti d’opere di successo dalla scena colta a quella popolare, ad esempio con le storie legate alla letteratura medievale carolingia e bretone, veniva realizzato a beneficio del popolo attraverso il linguaggio della scena e del comico.
Il Teatro quindi assolveva il compito di informatore culturale per le masse, con un suo linguaggio accattivante e immediatamente leggibile.
Recuperare e rimettere in circolo il patrimonio di questa tradizione culturale e della sua memoria, ha significato realizzare un luogo fortemente identitario, dove i manufatti hanno il preciso compito di ricreare l’interazione, la socialità, l’espressività di un popolo ricco di storia.
Poiché tali elementi di cultura popolare rivestono una funzione di rappresentazione e comunicazione, si doveva garantire la messa in scena di simboli, valori, oggetti, immagini e modelli di comportamento.
È per queste ragioni e per tutelare queste priorità che è stato realizzato un ultimo spazio rappresentato da una quantità cospicua di guarattelle e burattini che assistono dall’alto dei loro balconi, dall’ingresso dei vicoli napoletani, dai portoni caratteristici dei Decumani, alle reali rappresentazioni teatrali di opranti cui è affidato il compito di far rivivere l’arte, il ricordo, la storia, la memoria attraverso spettacoli e laboratori progettati per il Museo.

L’Infiorata di Cusano Mutri. La partecipazione corale di una comunità ritrovata

Difesa dalle montagne che fanno da cornice al borgo medievale, la sannita Cossa sembra chiudersi in una conca che richiama figuratamente l’etimologia del nome. Il nome, che significherebbe coppa sembra già evocare un rimando alla tradizione dell’Infiorata e a questa simbologia floreale, in quanto ne ricorda la forma a calice del fiore. È al passaggio del Corpus Domini che gli abitanti di Cusano Mutri si preparano per l’Infiorata. Tra le montagne di Bocca della Selva, di Pietraroja e tra i boschi di S. Felice è un alternarsi di anziani, giovani, bambini, tutti impegnati nella raccolta di orchidee selvatiche, fiori di acacia, ginestre, bacche di tuia, foglie di bosso, romice, qui chiamato lingua di bue.

A stretto contatto con la natura si sprigiona quell’intimità del gruppo che si coltiva nell’appartenenza. L’esempio di comunità non chiusa in se stessa poiché sa coinvolgere e rendere partecipe il visitatore; la manifestazione del dono che si palesa attraverso lo scambio simbolico insito nell’evento; la difesa identitaria e la rigenerante attività giovanile che si sprigiona contro l’inquietudine e il disagio; tutto ciò è stato documentato in questo paese che non si limita a conservare la tradizione, ma la ricrea, la genera, offrendola al visitatore che difficilmente rimane spettatore.

“Sono sicuro che alla fine della giornata verrà voglia anche a voi di collaborare per la realizzazione delle opere. Siamo portatori sani di bellezza! Chiunque viene a farci visita, lentamente poggia il piede nel perimetro del quadro disegnato a terra, e inizia a chiedere: <>, e incominciano a lavorare con noi”, commenta Carodio Scarpato, abitante di Cusano e attivista della Proloco; e nel mentre con estrema accortezza stende e allarga i fiori di ginestra posati sul pavimento, affinché questi non si surriscaldino, appassendo.

Seppure è tradizione abbastanza comune infiorare le strade per il passaggio della processione del Santissimo Sacramento, in questo paese la dominante distintiva e singolare la offre appunto il paesaggio.
Tutto il materiale impiegato per questi tappeti è offerto dalla natura; le montagne circostanti donano una quantità sorprendente di fiori e erbe utili per la realizzazione delle opere.

La conoscenza dei luoghi dove ricercare i fiori è indispensabile e prevede una riappropriazione
degli spazi, un conferimento di senso al luogo vissuto, interiorizzato che rimanda al concetto di domesticità. Un appaesamento ben riuscito che realizza una familiarità del quotidiano. Ecco, la sensazione è proprio questa a Cusano: il contagio della condivisione resa appunto possibile dall’agio dell’appaesamento.

La cultura condivisa che non è adattamento ma forza rigeneratrice, qui si esplica nell’evento dell’Infiorata che diventa “progetto comunitario secondo valori, un’intenzione valorizzatrice, uno slancio consentito dal rapporto forte e intimo dei cusanesi con la natura e l’ambiente che li protegge”, ci tiene a specificare il Sindaco Pasquale Frongillo.

Tutto il lavoro per il giorno dell’Infiorata ha inizio molto tempo prima dell’evento in sé che
coincide sempre con il Corpus Domini. Durante tutto l’anno la comunità di Cusano si presta alla ricerca del materiale da lavoro per la realizzazione dei variopinti tappeti floreali. “Sono mesi che entro nei bar per procurarmi la posa del caffè consumato. Dopo l’essiccazione viene filtrata, ridotta in polvere e conservata. Il giorno della decorazione viene distribuita per realizzare i contorni dei disegni” spiega Loredana Maturo, Presidente della Proloco.

Ma è solo una piccola percentuale dei tappeti, che coprono all’incirca i 2.500 m² di superficie
stradale, che viene realizzata con materiale di scarto non offerto direttamente dalla natura. Questa è la regola: servirsi di tutto ciò che le montagne concedono spontaneamente. Così i capelli del Cristo nella Chiesa di San Giovanni Battista, non sono altro cheinfiorescenze del castagno, raccolte e fatte essiccare se si vuole ottenere una chioma castana, o bruciate in forno se la chioma appartiene ad un cherubino bruno. Ma se il colore non si intona con l’idea del volto che vuole essere poi raffigurato secondo un’idea di bozzetto presentata solitamente a marzo agli organizzatori della Proloco Cusanese, allora occorrerà ricercare e conservare un altro tipo di infiorescenza, più chiara che renda meglio la raffigurazione artistica pensata. Forse il fiore del noce sarà più adatto allo scopo.
La conoscenza qui è ampia, è adatta ad ogni tipo di uso e nasce spontanea, seguendo gli adulti i bambini apprendono e suggeriscono, improvvisano e creano.
Gli aneddoti e i racconti cadono a pioggia, frutto di ritualità codificate che si tramandano, come il racconto di Lucia Franco. Delicatissime rose dal colore tenue che crescono su un albero spinoso sarebbero adatte per decorare i volti così difficili da ottenere con materiale diverso. Eppure Lucia
oltrepassa l’albero e spiega: “Quella è la rosa canina, qui chiamata rosa janara. Non si raccoglie perché si racconta che quando passi sotto quell’albero e ti appropri delle rose, la notte le streghe possono venire a farti visita, noi per scongiurare l’arrivo diciamo ‘sapt oje’, che significa ‘oggi è sabato’, si dice così per ingannare le streghe che viaggiano il martedì e il venerdì ma non il sabato”.

I racconti sono anche un trasporsi di idee e di insegnamenti. Non tutto può essere impiegato e di fronte ad un campo sterminato di papaveri il nostro viaggio prosegue, non è quello il luogo adatto perché quei fiori hanno petali che non resisterebbero al sole; pochissime acacie bianche quest’anno perché ha piovuto in abbondanza; e allora come ottenere i colori che necessitano?

“C’è chi usa la segatura, la polvere di marmo, ma la regola vuole che la gran parte venga realizzata con fiori e derivati. Io per il Cristo ho impiegato materiale finemente tritato per poter realizzare sfumature che con le infiorescenze sono più difficili da ottenere. Quindi per ricreare le ombre e i chiaroscuri sul volto mi sono servito della sabbia e della sansa, ottenuta dallo scarto dei noccioli di olive” sostiene Antonio Linfante che ha realizzato l’idea di un Cristo variopinto nella Chiesa della Madonna delle Grazie, dal titolo ‘Venite a me bambini’.

“Si ma lui può farlo, è l’artista. Lui guida tutti noi e alla fine il suo diventa un capolavoro. Noi lo aiutiamo ma è lui che dirige. È lui che sa. Lui è ‘o Professore, ‘o mast!” suggerisce Luigi Franco, mentre si occupa del riempimento della greca con la posa di caffè, “nuovo esperimento di Tonino, che ha voluto osare quest’anno con un lavoro di precisione disegnando anche la greca al contorno del quadro”.

Esistono ruoli ben delineati e una collaborazione partecipe. Il ruolo disegna un profilo, pian piano una storia e Tonino realizza l’aspettativa riposta in lui dai suoi aiutanti con dedizione, serietà ma anche con una chiassosa felicità. Qui si realizza l’essenza del dono e si attiva uno scambio reciprocitario tra tutti i partecipanti.
Interi gruppi familiari si adoperano alla ricerca dei fiori tra i campi; chi non vive più a Cusano ritorna da sempre per partecipare alla preparazione dei quadri, e la festa diventa simbolo coreutico e rappresentazione collettiva che disegna la strada dell’incontro.

Elisa e Gianni da anni realizzano il loro tappeto sulle orme di Caravaggio e sono gli unici a creare ai piedi del preziosissimo altare in legno nella Chiesa di San Pietro e Paolo un tappeto di polvere colorata ottenuta dalla miscela di fiori essiccati durante tutto l’anno. Elisa si preoccupa di recuperare il materiale floreale dalle cerimonie che si svolgono in chiesa e provvede all’essiccazione e alla macinazione dei fiori recuperati. Da questi ottiene una polvere profumata e finissima di blu, rosa, giallo, grigio.
“Ogni anno il nostro tappeto viene dedicato a qualcuno che ci ha abbandonato. Quest’anno il volto della Madonna tratto da ‘Le sette opere di Misericordia’ di Caravaggio, è stato decorato con la polvere dei fiori regalati ad un nostro caro amico che ci ha lasciati poco tempo fa e che era sempre qui con noi ad aiutarci nella preparazione dell’Infiorata”, racconta Elisa Iamartino.
Non dimentica questa gente, imprime un segno del loro ricordo nell’opera da realizzare e anche nel giorno di festa il pensiero è rivolto a chi ha condiviso, ha partecipato, ha contribuito a formare comunità. Come ha confermato Tonino che commosso guarda il tappeto e ritorna con il pensiero all’amico di Infiorata che non c’è più e a lui dedica anch’egli il suo capolavoro di perfezione. Questa gratitudine è un esporsi all’altro in una manifestazione di solidarietà che realizza una forte identificazione.

Dopo la raccolta arriva il momento del disegno per strada durante la notte del sabato, prima della festa. All’alba il paese d’improvviso si inonda di voci, colori, profumi, e i disegni prendono corpo, tutto è pronto, l’offerta simbolica al Cristo è adempiuta, lo spazio del quotidiano si trasformerà in spazio sacralizzato. Ed è sera.
La Processione del Corpus Domini calpesta i tappeti; il parroco, Don Pasquale, guida con passo indeciso, grato per tale affezione popolare, i fedeli sulle opere dedicate al Cristo. Al passaggio tutto viene distrutto, non rimane che la risoluzione salvifica di uno scambio simbolico, e questa distruzione presuppone una prossima rinascita.

A Rapone (Pz) un laboratorio antropologico sulla multiculturalità

Antrocom Onlus Campania torna a Rapone con un nuovo progetto: Il Piccolo Bazar – Laboratorio sulla multiculturalità.

Dopo il successo dell’estate 2010 raggiunto con il laboratorio sul teatro di figura Guarattellando che ha visto la partecipazione di 50 bambini, Antrocom Onlus Campania sarà nuovamente presente nel paese di Rapone (PZ), incantevole borgo potentino, con un progetto voluto dal Comitato Feste Patronali San Vito Martire, in occasione delle festività che vanno dal 13 al 26 giugno.

Proprio in quest’ultima data si terrà nella Piazza XX Settembre l’incontro con i bambini del paese per lo svolgimento del laboratorio sulla multiculturalità “Il Piccolo Bazar” diretto da Michela Forgione e Angela Verrastro di Antrocom Onlus Campania.

Un viaggio nel mondo per la conoscenza e l’interpretazione di aspetti culturali, usi e costumi dell’alterità.
I bambini dovranno conquistare, attraverso il gioco, gli oggetti caratterizzanti le diverse etnie; verranno a conoscenza di cerimoniali e simboli identificativi delle culture che dovranno di seguito rappresentare.

Truccati e preparati per la rappresentazione finale i bambini di Rapone saranno in grado di rappresentare i rituali cerimoniali, riproducendo usi e costumi precedentemente spiegati e presentati dalle nuove collaboratrici di Antrocom Onlus: Katiuscia Laila Vene e Serena Bracuti Monaco.

I diversi gruppi culturali avranno a disposizione un apparato figurativo e strumentale per realizzare il loro canovaccio e inventare un mini-repertorio da mettere in scena.
Il gruppo facente parte della cultura giapponese riprodurrà in questo modo il famoso Sado, ossia le cerimonia del tè, e piccoli dialoghi che sintetizzeranno modelli di comportamento e rituali sociali tra i più comuni.

Si cederà il posto al gruppo che indosserà il sombrero e il poncho e che rappresenterà le tipiche danze messicane; per poi immergersi nei suoni e sapori della cultura marocchina assistendo al rituale del disegno del corpo con l’hennè, o della danza del ventre; bambini e bambine vestiti con i tipici abiti indiani, dhoti e sari, immergeranno il pubblico tra gli odori e i sapori speziati dell’India per poi condurci nella coinvolgente cultura spagnola a suon di nacchere e di flamenco. E per finire il gruppo della cultura italiana rimarcherà aspetti, rituali, canzoni e tipicità a noi appartenute.

L’obiettivo che si intende raggiungere è stimolare una riflessione sull’origine delle cose, combattere gli stereotipi e valorizzare la convivenza e le diverse identità.

Attraverso l’attività principale che è il gioco, si vogliono offrire ai bambini gli strumenti adatti per reinterpretare la storia delle culture e permetterne una rappresentazione autonoma ma necessaria per la tutela e la valorizzazione identitaria.

L’obiettivo è quello di sensibilizzare i bambini verso l’altro e le differenze culturali, convinti che il rispetto reciproco e il valore della tolleranza si raggiungono solo percorrendo la strada della conoscenza! Oltre al “sapere” e al “saper fare” i bambini impareranno anche il “saper essere”: si cercherà di incuriosirli verso il nuovo e ciò che non si conosce.

Il “Piccolo Bazar” intende lanciare il messaggio che è possibile raggiungere una coesistenza pacifica tra le culture attraverso la diffusione della conoscenza, sostenendo che la diversità è un valore aggiunto e non un elemento discriminante.

Ceramica e presepe: archivio delle tradizioni e laboratorio del futuro

Si è svolta sabato 11 dicembre 2010 nella suggestiva Cerreto Sannita (Benevento), con la partecipazione di Antrocom Onlus Campania, il convegno Ceramica e presepe: archivio delle tradizioni e laboratorio del futuro.

Il convegno è stato organizzato dalla Pro-loco nel ciclo di appuntamenti che prevedono il rilancio della tradizione e la manifestazione dell’arte cerretese come tema degli incontri.

Il programma degli eventi organizzati a Cerreto Sannita sembra concentrarsi principalmente sull’arte, essendo questa comunità annoverata soprattutto per la lunga tradizione di artigiani ceramisti. L’intuizione della Pro Loco nel volere donare al proprio contesto una rivitalizzazione della tradizione attraverso un ritorno al rito e al recupero dei significati simbolici-culturali della Natività, ha realizzato un incontro e giusto connubio tra la comunità cerretese e Antrocom Onlus Campania.

Si è partiti da una necessaria ricostruzione storica dell’arte della ceramica attraverso la relazione della responsabile dell’Archivio Storico della Diocesi di Caserta e direttore della Storica Biblioteca A.N.I.A.I Campania, Giovanna Sarnella, per poi immergersi nella contemporaneità dell’arte e del suo sviluppo e cambiamento attraverso i canali informativi, con l’intervento di un ceramista d’eccezione, Mirco Denicolò.

Si è ritenuto necessario completare gli interventi con un’interpretazione e una lettura antropologica dei temi legati alla Natività e, visto il periodo, al Presepe; Il Presepe in quanto giocattolo rituale, modello ridotto di una totalità, ingrandimento illusionistico del particolare, viene immediatamente ricondotto all’arte.
Questo mondo in miniatura oltre a ricollegarsi a una forma d’arte e a una forma di costume, è sicuramente espressione di dimensioni simbolico-rituali, che assume carattere allegorico di viaggio misterico. Un viaggio sotteso di rimandi culturali che l’antropologa Michela Forgione di Antrocom Onlus Campania ha ripreso come tema di discussione nel convegno.

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